“Sono stanco”.
Questa è, al giorno d’oggi, una delle risposte più frequenti alla domanda: “come stai?”.
In una società come la nostra tutto è in costante movimento, gli stimoli si contano al ritmo dei secondi e tutti ci sentiamo sempre in ritardo. Il diritto di scegliere e di determinare la propria vita diventa un imperativo così pressante da lasciare spazio solo ad un agire continuo.
In un mondo ricolmo di azioni, dove la contrapposizione tra permesso e divieto è un ricordo lontano più di mezzo secolo, il perno attorno al quale tutti ci aggrovigliano è la misura tra il possibile e l’impossibile. Ma confrontarsi con questa dicotomia è difficile e può risultare spaventoso.
Per agire nella sfera del possibile è necessario essere realmente in grado di scegliere e, per farlo, occorre saper osservare la realtà, conoscere ed accettare i propri limiti ed assumersi la responsabilità delle proprie possibilità.
Incontrare schiettamente sé stessi è di fondamentale importanza per la propria salute ma spesso richiede coraggio, determinazione, volontà e tempo.
Sono in molti a preferire scorciatoie per evitare il più possibile quest’ incontro:
alcuni provano a fermarsi prima di compiere qualunque scelta rimanendo sospesi nella stasi e nell’immobilità. Il prezzo da pagare in questi casi è una sensazione costante di insufficienza e di incapacità.
Altri si muovono caoticamente come fossero guidati da una forza esterna a loro stessi non riuscendo nè a godere della vita come propria nè ad imparare dall’esperienza. Non si sentono proprietari del proprio destino anzi, spesso si sentono perseguitati da esso. il prezzo da pagare è una continua sensazione di impotenza che sfocia, anche qui, nella percezione di un sé inadatto ed incapace.
Entrambe le strategie, per quanto apparentemente diverse, risultano funzionali soltanto a disorientarci nella ricerca di noi stessi e, attraverso il sentiero dell’impossibilità, ci conducono verso la depressione.
Oggi è più facile riconoscere la depressione come una malattia dell’azione piuttosto che della colpa. A parlare è la voce dell’impotenza che racconta di inibizioni, blocchi, pesantezza, stanchezza… la percezione è che non sia possibile alcun progetto e tutto rimanga bloccato in un tempo senza futuro. L’astenia, l’ansia, insonnia sono i segni più riconoscibili.
Ma per quanto impegno possiamo profondere per rimanere a distanza da noi stessi, l’attrazione per il nostro sé più autentico lascia tracce che dobbiamo imparare a riconoscere se sentiamo il bisogno di prendere in mano la nostra vita. Un di queste tracce è quella che Milan Kundera chiama vertigine.
"Chi tende continuamente "verso l'alto" deve aspettarsi prima o poi d'essere colto dalla vertigine --- Che cos'è la vertigine? Paura di cadere? --- La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso."
Alle volte ci sembra più autentico cadere che provare a salire.
Il fondo racconta qualcosa di noi che ogni tanto esige di essere ascoltato, conosciuto. Ha il sapore della verità.
Decidere di esplorare il profondo con l’aiuto di qualcuno può tutelarci dal rischio di sprofondare nel fondo da soli senza deciderlo, confusi dalla paura mista al desiderio di conoscere la nostra verità.
“Le cose belle non accadono per caso
Rimanere seduti in attesa del fato o muoversi a caso sperando di inciampare nel nostro destino è solo un modo per rimanere a distanza da noi stessi.
Le cose belle accadono solo quando siamo pronti a riconoscerle, sceglierle ed accoglierle nella nostra vita.
Le cose belle accadono quando impariamo a tollerarne la responsabilità.”
Dr.ssa Valentina Gallo